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Campagna choc: “L’etichetta degli abiti non dice la verità”

Se l’etichetta dovesse davvero raccontare tutto ciò che si cela dietro alla produzione dell’abbigliamento che acquistiamo, allora queste fascette di carta siliconata cucite all’interno degli abiti diventerebbero ancora più fastidiose. Per la nostra coscienza e forse, per quella di chi sottopone gli operai dei paesi produttori a condizioni di lavoro dure e disagiate, per placare la fame dettata dal consumismo che caratterizza il mondo occidentale. Quello che sappiamo dell’abito che indossiamo è il paese di provenienza, la taglia, la natura del tessuto ed eventuali indicazioni sul lavaggio.

L’etichetta non racconta tutta la storia però e a gridarlo è la Canadian Fair Trade Network con una nuova e provocatoria campagna anti-sfruttamento del lavoro. L’associazione no profit vuole sensibilizzare il mondo occidentale, indirizzando il pubblico verso un acquisto consapevole, cucendo su alcuni abiti etichette racconto, che svelano tutti i retroscena delle fasi produttive e di fabbricazione di ogni capo d’abbigliamento. I protagonisti sono gli operai del Bangladesh, della Cambogia o del Sierra Leone, che lavorano per ore con paghe irrisorie, in condizioni e realtà pessime, impensabili per il mondo occidentale.

C’è la maglia “Made in Sierra Leone by Tejan”, operaio che si è ammalato, lavorando per anni senza nessun tipo di protezione, e la diagnosi è stata di avvelenamento da pesticidi. C’è il capo “Made in Cambodia da Behnly”, giovane operaio di nove anni che si sveglia ogni giorno alle 5 del mattino per raggiungere la fabbrica dove lavora tutto il giorno in uno stanzone caldissimo e senza aria condizionata, immerso nella polvere, per guadagnare meno di un dollaro al giorno. Due storie comuni a tutti i lavoratori del settore, che in Cambogia percepiscono un guadagno di 100 dollari al mese, mentre in Bangladsh, secondi i dati Oxfam, questi arrivano a un salario minimo di 68 dollari al mese.

È per questo motivo che ogni etichetta realizzata dall’associazione vuole raccontare la storia dei lavoratori, aggiungendo questo messaggio di sensibilizzazione: “È tempo di cambiare. Un acquisto equo e solidale assicura che i lavoratori siano stati compensati in modo equo e non esposti a condizioni di lavoro non sicure”. Raccontare la verità significa giocare a carte scoperte, offrendo a tutti la possibilità di guardare al di là del muro che hanno eretto le grandi industrie.

Marta Bandini

Sono nata a Roma nel 1987 e da sempre ho una passione per la creatività, espressa liberamente nell'arte e nella moda. Dopo essermi diplomata ad un Istituto d'Arte, con specializzazione in Grafica Pubblicitaria, ho proseguito gli studi universitari intraprendendo il percorso di Storia dell'Arte Contemporanea, concluso nel 2010 con la tesi di Laurea sulla disputa sull'originalità o meno delle “Vere False Teste di Modigliani” e con esso l'affronto da parte dei giovani ai più grandi storici dell'arte dei miei tempi. Cosa rende “artista”, “famoso” o “unico” un quadro, un'opera d'arte, una canzone o un abito? Non esiste nessun riconoscimento se i primi a crederci non siamo noi stessi. E su questa riflessione che iniziò nel 2012 il progetto www.blogdimoda.com. Nato per dare voce a giovani artisti emergenti, piccoli brand che cercano di farsi strada nel difficile mondo della moda, negozianti che cercando di far conoscere i propri prodotti nel network del web.

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