Punk’s not dead” e non morirà mai.
Anche le celebrities ne sono completamente innamorate tanto da sfoggiare capi d’abbigliamento punk come le t-shirt stampate con il volto o il logo del cantante in questione.
Tutti, proprio tutti, passeggiano per le strade mettendo in mostra l’ammirazione o il ricordo per una tal canzone o un tal gruppo, anche le celebrities in rosa, le più cool della scena moderna come Paris Hilton.

I più quotati sembrano essere i Ramones, seguiti dai Nirvana e David Bowie.
Eppure, più che vero amore, potrebbe sembrare moda, un modo come un altro per indicare una certa aggressività anticonformista e uno spirito ribelle, proprio di chi non si sottomette allo strato sociale delle masse.
Ma le celebrities altro non sono che capi delle masse, e il punk, ormai, altro non è che stile delle masse: ecco uno iato inesistente, una frattura già colmata, un diverbio ormai risolto.
La subcultura del punk avrebbe sgretolato il modello trickle-down, ovvero la scelta di ciò che è moda da parte delle classi dominanti, inserendosi nella cultura di massa nella quale non esistono più differenze sociali o ruoli prestabiliti, pertanto si sarebbe configurato all’interno di questo panorama come la riappropriazione e rivendicazione della propria identità attraverso un codice estetico dato dall’abbigliamento.
Ad oggi, se il punk possedeva uno stato di cose sovversivo, si è mescolato inevitabilmente con la cultura dominante, tanto da non poter più parlare di subcultura o controcultura.

Ecco, quindi, Kate Moss con una t-shirt con David Bowie, Harry Styles con i Ramones, come anche Anne Hathaway, Kim Kardashian, Fergie, Paris Hilton, Avril Lavigne, Romeo Beckham con i Nirvana, Naomi Watts con Blondie, Kristen Ritter coi The Clash.
Quindi no, il punk non è morto, si è solo evoluto e non rappresenta più l’opposizione, ma la ribellione.